Due anni di trascinamento del Sudan in una guerra oscura, uno dei periodi più bui della sua storia, sono stati sufficienti a causare tensioni con i Paesi vicini e un isolamento regionale con un semplice colpo di penna del comandante dell’esercito, Abdel Fattah al-Burhan, in particolare con Ciad, Repubblica Centrafricana, Uganda, Sud Sudan e Kenya.
Un martedì nero, il 25 marzo, ha vissuto il Sudan dopo il massacro del “Mercato del Lunedì” nel Darfur, costato la vita a centinaia tra morti e feriti in un attacco immotivato dell’esercito contro un gruppo di civili inermi. Di certo, ciò aumenterà l’isolamento regionale del Sudan.
In un’analisi, il New York Times ha ritenuto le atrocità segnalate nel Darfur un cupo promemoria delle brutali perdite della guerra in Sudan – la più grande in Africa – che si avvicina a compiere due anni. La testata fa riferimento a video e foto scattati dopo un raid dell’esercito su Tora, una piccola località, che mostrano decine di corpi carbonizzati e resti umani sparsi su una vasta area in fiamme nel mercato della città.
Un’analisi dei filmati pubblicati dal Times evidenzia aree bruciate in diverse parti del mercato, dovute a esplosioni multiple. In un video girato sul posto, un testimone ha riferito che quattro razzi hanno colpito il mercato: uno nel centro e tre ai margini.
Nuova crisi del “Sudan di al-Burhan”
Questo avviene pochi giorni dopo l’ultima crisi del cosiddetto “Sudan di al-Burhan”, innescata dalla prima “raffica” sparata dal membro del cosiddetto “Consiglio di Sovranità” Yasser al-Atta, che ha minacciato le due vicine Ciad e Sud Sudan con aggressioni militari.
Al-Atta ha dichiarato apertamente che gli aeroporti di N’Djamena e Umm Jaras, nello Stato del Ciad, sono obiettivi legittimi per l’esercito sudanese, criticando inoltre quelle che ha definito “centri di influenza corrotti” nello Stato del Sud Sudan.
Anche altri Paesi vicini, come l’Uganda, la Repubblica Centrafricana e il Kenya, non sono rimasti immuni dalle accuse.
Il lessico dell’uomo di al-Burhan comprende parole di minaccia ricorrenti: lo scorso gennaio al-Atta ha attaccato l’Uganda, minacciando il comandante delle Forze di difesa popolari ugandesi, Muhoozi Museveni – figlio del presidente ugandese – di annientare le sue forze se avesse tentato di attaccare il Sudan.
L’Uganda, criticata da al-Atta, ospita il campo profughi di Kiryandongo, che da solo accoglie oltre 50mila rifugiati, per lo più sudanesi, provenienti in particolare dalla capitale Khartoum e dalle province del Nilo Azzurro, del Darfur, dell’isola di al-Gezira, del Kordofan e del Nilo Bianco. L’ONU in passato ha lodato l’Uganda per l’assistenza offerta a tali profughi.
Reazioni indignate
Le minacce sudanesi hanno suscitato indignazione in Ciad: il governo di N’Djamena ha chiarito di riservarsi il diritto di reagire in caso di un eventuale attacco sudanese sul proprio territorio. Il portavoce del Ministero degli Esteri ciadiano, Ibrahim Adam Mohamed, ha sottolineato che simili dichiarazioni potrebbero essere interpretate come una dichiarazione di guerra, qualora vi fosse un seguito, avvertendo che un tale discorso potrebbe condurre a una grave escalation.
Nel corso del regime dei Fratelli Musulmani (“i kizan”) in Sudan, N’Djamena ha ripetutamente accusato le autorità sudanesi di fare di tutto per destabilizzare il Ciad, in particolare coordinando rivolte armate e sostenendo il gruppo Boko Haram.
A sua volta, il Ministero degli Esteri e della Cooperazione Internazionale del Sud Sudan ha espresso profonda preoccupazione e forte condanna per le recenti dichiarazioni pubbliche di Yasser al-Atta, che ha minacciato un’“aggressione militare contro il popolo e la sovranità del Sud Sudan”.
In una nota, il Ministero ha dichiarato che “le affermazioni del generale al-Atta, secondo cui il governo sudanese e le sue forze armate sarebbero pronte a intervenire contro coloro che ha definito traditori all’interno del Sud Sudan, non sono solo sconsiderate e provocatorie, ma rappresentano anche una flagrante violazione dei principi di buon vicinato, di convivenza pacifica e del diritto internazionale”.
Isolamento regionale
Gli uomini di al-Burhan hanno lasciato il Sudan immerso in un isolamento regionale, agitandosi nel minacciare i Paesi vicini, mentre alcuni osservatori invitano i leader militari a porre fine alla sospensione dell’adesione del Sudan all’Unione Africana, in vigore dal 27 ottobre 2021, cioè due giorni dopo le misure con cui fu sciolto il governo civile.
Per quattro anni consecutivi, il Sudan non ha avuto alcun braccio d’azione regionale, a causa della mancata partecipazione ai vertici africani in seguito alla sospensione dall’Unione Africana. La sanzione continentale si è estesa anche al Consiglio per la pace e la sicurezza africano, anch’esso facente capo all’Unione, che ha sospeso l’adesione di Khartoum ormai da molti mesi.
Il Kenya, giudice imparziale e uno dei principali pilastri regionali tra i Paesi vicini del Sudan, è stato anch’esso bersaglio di un attacco retorico analogo: il governo di al-Burhan lo ha accusato di violare la sovranità sudanese, sostenendo che Nairobi avrebbe ospitato un incontro delle Forze di supporto rapido sudanesi nella capitale, definendolo persino “un atto ostile”.
Il governo di al-Burhan ha ignorato le ripetute conferme di Nairobi a Khartoum, secondo cui il Kenya ospita numerosi rifugiati sudanesi e vanta una lunga storia di facilitazione del dialogo interno sudanese “senza alcun secondo fine”.
La confusione di al-Burhan è apparsa chiara nella decisione di sospendere completamente l’adesione del Sudan nell’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo (IGAD), a seguito di un precedente provvedimento con cui si era già congelata la partecipazione del Paese all’organizzazione regionale, composta da sei nazioni dell’Africa orientale.
La popolazione sudanese è rimasta scioccata da questa scelta, avvenuta all’indomani del vertice dell’IGAD, tenutosi nella capitale ugandese Kampala, al termine del quale era stato fissato il termine di due settimane affinché il comandante dell’esercito Abdel Fattah al-Burhan e il leader delle Forze di supporto rapido, Mohammed Hamdan Dagalo (Hemetti), tenessero un incontro diretto per discutere un cessate il fuoco e concordare un calendario ben definito per la road map africana, che prevede il dispiegamento di forze regionali a Khartoum. Tuttavia, al-Burhan ha rifiutato di recarsi al vertice, nonostante la controparte avesse preso parte all’iniziativa e mostrato disponibilità.
Il massacro di Tora
Secondo gli analisti, le crisi interne in continuo aumento in Sudan si riflettono negativamente sulle relazioni con i Paesi vicini. Un esempio è la regione del Darfur, teatro di “massacri” che l’esercito perpetra, generando ondate incessanti di sfollati e rifugiati all’estero, con conseguenti difficoltà per i governi di quei Paesi.
È sotto gli occhi di tutti che il “massacro del Mercato del Lunedì”, di cui il gruppo “Avvocati d’emergenza” accusa l’esercito sudanese nella città di Tora, sia solo uno di una serie di eccidi compiuti con l’aviazione militare sudanese.
Le Nazioni Unite hanno ripetutamente condannato i continui attacchi contro i civili in Sudan. Il portavoce del Segretario generale delle Nazioni Unite, Stéphane Dujarric, ha dichiarato: “Siamo estremamente preoccupati per i persistenti attacchi contro i civili in tutto il Paese. La scorsa notte, nel Darfur, i raid aerei su un mercato hanno causato decine di vittime”, riferendosi ai bombardamenti dell’esercito.
Ripercussioni economiche sui Paesi vicini
Tre mesi dopo lo scoppio della guerra in Sudan, il Centro Pharos per consulenze e studi strategici ha pubblicato un rapporto sugli effetti di questo conflitto per i Paesi confinanti, in primis il Sud Sudan, che teme un blocco delle esportazioni di petrolio per gli operatori malesi, cinesi e indiani nel Sud Sudan, i quali dipendono al 100% dall’accesso al mercato globale attraverso il Sudan. Un danno all’economia del Sud Sudan, dove il petrolio rappresenta il 90% dell’economia e costituisce il 70% del PIL.
La Repubblica Centrafricana affronta già notevoli problemi interni, soprattutto sul fronte della sicurezza e dell’economia. Con il protrarsi dell’attuale instabilità in Sudan, diventa difficile procurarsi molti beni alimentari di base da cui la popolazione centrafricana dipende fino al 70% – come zucchero, farina, passata di pomodoro e oli alimentari – con un notevole aumento dei prezzi.
Il conflitto in Sudan ha spinto oltre 31mila rifugiati a fuggire verso la Repubblica Centrafricana, la maggior parte dei quali vive in zone remote fuori dal controllo governativo. Di recente, le Nazioni Unite hanno riferito che gli operatori umanitari si trovano regolarmente ad affrontare episodi di violenza, rendendo ancora più difficili gli interventi di assistenza.
Per quanto riguarda il Ciad, Paese strategicamente importante perché collega l’Africa occidentale, settentrionale, orientale e centrale, la principale preoccupazione riguarda i profughi sudanesi e il rischio di infiltrazione di gruppi armati. Per questo motivo il Ciad, sin dall’inizio della crisi, ha chiuso i confini con il Sudan, permettendo tuttavia delle eccezioni, in molte circostanze, per il passaggio di aiuti umanitari sotto supervisione delle Nazioni Unite.
Dallo scoppio della guerra, oltre 930mila persone sono fuggite in cerca di salvezza nell’est del Ciad, stabilendosi in gran parte nella provincia di Wadi Fira, già colpita da alti livelli di povertà e da carenze di servizi essenziali. Tuttavia, le autorità di N’Djamena hanno consentito un rapido intervento umanitario e si sono adoperate per mettere in sicurezza i confini, impedendo l’ingresso di armi nel Paese insieme ai rifugiati, come riportato da un dossier dell’International Crisis Group.